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Il bancomat di tutti governi: i pensionati

Con la pubblicazione della Circolare n. 44 del 22 marzo u.s. [Rimodulazione della rivalutazione annuale delle pensioni per l’anno 2019 ai sensi dell’art. 1, comma 260, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (legge di bilancio 2019)], l’INPS ha reso noto a tutti i pensionati ciò che agli addetti ai lavori era parso chiaro fin dall’approvazione della c.d. Finanziaria per l’anno in corso, vale a dire  l’applicazione di un meccanismo di adeguamento automatico dei trattamenti pensionistici per il triennio 2019 – 2021 parzialmente diverso (e  sfavorevole per i pensionati) rispetto a quello applicato al rinnovo 2019.

Di cosa si tratta e a chi è rivolta tale previsione?

Procediamo con ordine.

Per meglio comprendere il presente è bene muovere dal passato e, senza andare troppo lontano, ritornare al Governo Monti ed al provvedimento -collocato nell’ambito delle “Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici” (manovra denominata “salva Italia”)- secondo cui «In considerazione della contingente situazione finanziaria», la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS (vale a dire euro 1.217,00 netti), nella misura del cento per cento. Nulla era previsto per le pensioni di importo superiore.

Detta disposizione venne dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 70/2015) poiché si limitava a richiamare genericamente la «contingente situazione finanziaria», senza che emergesse dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi.

L’interesse dei pensionati, in particolar modo di quelli titolari di trattamenti previdenziali modesti, alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, risultava quindi irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio.

Di qui la citata declaratoria di illegittimità costituzionale.

L’attenzione si è così spostata sull’intervento normativo operato in materia con il decreto – legge 21 maggio 2015, n° 65 (in G.U. n° 116 del 21 maggio 2015), voluto dal Governo Renzi ed intitolato Disposizioni urgenti in materia di pensioni, di ammortizzatori sociali e di garanzie TFR, convertito –con modificazioni- in Legge 17 luglio 2015 n° 109.

Orbene, con tale provvedimento il Governo dell’epoca prima ed il Parlamento poi hanno inteso “dare attuazione ai principi enunciati nella sentenza della Corte Costituzionale n° 70 del 2015, nel rispetto del principio dell’equilibrio di bilancio e degli obiettivi di finanza pubblica” (art. 1, comma 1 della normativa citata).

In quest’ottica il Legislatore aveva proceduto a ri-disciplinare la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici a far data dal 1° gennaio 2012 –e per gli anni successivi-, riconoscendo percentuali perequative progressivamente inferiori man mano che il trattamento pensionistico in godimento risulti complessivamente superiore alle soglie ivi indicate.

In altri termini, anziché dare tutto il dovuto a tutti gli aventi diritto alla luce della richiamata sentenza della Corte Costituzionale del 2015, il Governo ed il Parlamento riconobbero poco a pochi.

Anche la normativa del 2015 venne portata all’attenzione del Giudice delle Leggi che –con sentenza n. 250/2017- la ritenne esente da vizi di costituzionalità in quanto il Legislatore –col preciso intento di dare attuazione alla sentenza n. 70/2015- avrebbe operato un nuovo bilanciamento dei valori e degli interessi costituzionali coinvolti nella materia, così introducendo significative novità normative rispetto al regime precedente.

Attese le pronunce sfavorevoli in ambito nazionale, si ritenne opportuno –o meglio, necessario- da più parti stimolare l’intervento dei Giudici sovranazionali. Arriviamo così alla CEDU (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo), nei cui confronti i pensionati italiani riponevano grande fiducia.

Con decisione datata 19 luglio 2018 la Corte di Strasburgo ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato da circa 10mila istanti poiché la disciplina della perequazione delle pensioni del 2015 avrebbe comportato un’incidenza economica (sui trattamenti di importo superiore a tre volte il minimo INPS) limitata sui pensionati coinvolti, ricompresa tra l’1,62 ed il 2,70%. Conseguentemente, il provvedimento –sebbene retroattivo- non sarebbe in contrasto con l’articolo 1 del protocollo 1 della Convenzione per salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà individuali.

L’aspetto più rilevante della motivazione addotta dalla CEDU è sicuramente il seguente: il governo italiano è intervenuto in una situazione economica difficile al fine di perseguire una finalità di utilità pubblica, contemperando le esigenze degli interessi generali con la salvaguardia dei diritti fondamentali dei cittadini.

I criteri di adeguamento degli assegni pensionistici fissati da Renzi nel 2015 hanno trovato applicazione fino al 2018. Dal 2019, in assenza di interventi legislativi, sarebbe tornata in vigore la legge 388 del 2000 (imposta dal Governo Prodi), che prevedeva l’adeguamento per “scaglioni”.

Ma, ed eccoci ai giorni nostri, il Governo in carica –con la Legge di Bilancio 2019- ha introdotto un nuovo sistema -basato su 7 “fasce”- meno generoso rispetto agli “scaglioni Prodi”, con conseguente necessità per l’INPS di procedere al ricalcolo degli assegni superiori a tre volte il minimo INPS (circa euro 1.522,00 lorde mensili) erogati –per ovvie ragioni tecniche- nei primi mesi dell’anno in corso secondo la Legge n.388/2000

Ciò accadrà, secondo la Circolare INPS del 22 marzo, a far data dal mese di aprile per circa 5,6 milioni di pensioni. Ma v’è di più.

Oltre al danno da ricalcolo della perequazione, si assisterà alla beffa del recupero delle maggiori somme corrisposte da gennaio a maggio 2019; più precisamente, il conguaglio –negativo, pari a circa 207 milioni di euro- dovrebbe avvenire (il condizionale è d’obbligo, in assenza di certezze sulle date) solo a far data dal mese di giugno 2019, vale a dire dopo le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo.

Poiché le conseguenze dei più penalizzanti criteri perequativi non sono recuperabili nel futuro, l’effetto trascinamento complessivo sul decennio (2019 – 2018) si aggira intorno ai 17 miliardi di euro. Tali risultati vanno a sommarsi agli effetti negativi della normativa in materia di perequazione imposta dal Governo Renzi.

Fin qui i dati oggettivi. Veniamo ora alle considerazioni che si possono trarre.

In primo luogo, è possibile affermare che raramente l’approccio al tema pensionistico -che anima il confronto tra tecnici del settore, il rapporto tra generazioni e agita –o meglio, dovrebbe agitare- il dibattito politico- è tra i più corretti.

In realtà, l’azione di governo si è indirizzata prevalentemente ad agevolare il collocamento a riposo (vedi riforma della c.d. Legge Fornero); poco o nulla si è detto e fatto per coloro che –come la maggior parte dei pensionati- si trova a riposo da anni ed ha visto drasticamente ridotto nel tempo il potere d’acquisto del proprio trattamento pensionistico.

Gli interventi in materia appaiono caratterizzati o da una spinta moralizzatrice (vedi il caso dei vitalizi parlamentari), ovvero da precisi intenti economico – finanziari, cioè le esigenze di cassa prevalgono su quelle sociali. Non vi mai una visione sociale del tema. Cosa significa?

Significa che mai viene sottolineato e rimarcato il ruolo e la funzione di vero e proprio ammortizzatore sociale svolto dai trattamenti pensionistici, con particolare riferimento all’ultimo decennio, caratterizzato dalla più profonda crisi planetaria del dopoguerra.

Durante questo lasso temporale, infatti, le tanto famigerate pensioni –specie quelle maturate col sistema retributivo- hanno consentito il sostentamento del nucleo familiare del titolare ma, troppo spesso, anche di quello dei figli che hanno perso il lavoro e, talvolta, anche dei nipoti che un lavoro non l’hanno mai avuto.

Se il lento scivolamento di intere fasce della popolazione verso la povertà ha trovato un argine, questo ostacolo è stato interpretato proprio dai trattamenti pensionistici e dalla tradizionale propensione al risparmio del popolo italiano.

Questa funzione di paracadute sociale esercitata dalle pensioni, lo sforzo titanico dell’esercito dei pensionati, non è mai stata adeguatamente valorizzata dalla politica e dalle Istituzioni che, anzi, hanno continuato a perseguire iniziative penalizzanti sotto il profilo economico, in quanto tese unicamente al ridimensionamento della spesa pubblica.

In questo senso, non vi è sostanziale differenza tra i Governi che si sono succeduti dal 2011 ad oggi, in quanto non si è apprezzato alcun cambiamento tra le politiche pensionistiche dell’una o dell’altra guida del Paese.

Le cattive notizie non vengono mia da sole.

Preme, infatti, evidenziare quelli che si possono definire i c.d. effetti collaterali della pronuncia dei Giudici di Strasburgo del 19 luglio 2018, intimamente connessi al riconoscimento della piena legittimità di interventi penalizzanti in ambito pensionistico con efficacia retroattiva.

Di che si tratta? Il ragionamento è semplice. Per l’applicazione di trattamenti previdenziali peggiorativi con effetto retroattivo si riteneva necessario –prima della pronuncia della CEDU- intervenire sull’art. 38, comma 2, della Costituzione (I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria); in questo senso, nel corso della scorsa Legislatura, sono state presentate le proposte di legge costituzionali C. 3478 e C. 3858, aventi ad oggetto Modifica all’art. 38 della Costituzione per assicurare l’equità intergenerazionale nei trattamenti previdenziali e assistenziali, con l’obiettivo dichiarato di riconoscere al legislatore la possibilità di intervenire con scelte discrezionali sui trattamenti in essere, purchè ciò non avvenga in modo irrazionale e, in particolare, frustrando in modo eccessivo l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulla normativa precedente.

Orbene, il riconoscimento operato dalla CEDU circa la legittimità del percorso normativo del Legislatore italiano –con l’unica condizione che le perdite non abbiano un impatto significativo sui pensionati- ben potrebbe autorizzare lo Stato ad intervenire in un futuro anche prossimo con ulteriori misure capaci di incidere in senso negativo sulle pensioni in godimento e con effetto retroattivo.

La decisione in commento, quindi, rappresenta -consapevolmente o meno- la prima tappa di un percorso ben più lungo e tortuoso che potrebbe aprire di fatto le porte alla rideterminazione –magari in più tappe, così da evitare subitanee ed eccessive incidenze sui trattamenti- in senso contributivo di tutti gli assegni calcolati su base retributiva.

Non è fantascienza. Sta già accadendo con i vitalizi dei parlamentari; pertanto, se il discorso “regge” per gli ex deputati e senatori, perché non dovrebbe “reggere” per le pensioni ordinarie?

Del resto, un recente documento del Fondo Monetario Internazionale (dal titolo “L’Italia verso una riforma fiscale amichevole”, datato marzo 2018) torna a mettere l’accento sulla necessità di rivedere il nostro sistema pensionistico, evidenziando come la spesa per la previdenza impedisca la crescita dei conti e della cultura del Paese, perché leva risorse agli investimenti e all’istruzione. Morale: bisognerebbe tagliare le pensioni. Nello studio si afferma che la spesa previdenziale italiana è seconda per peso sui conti pubblici, dopo la Grecia (16% del PIL, sebbene si dovrebbe più correttamente distinguere tra previdenza e assistenza); e ciò in un Paese di grande precariato, disoccupazione ancora allarmante e invecchiamento costante della popolazione. Nelle conclusioni dello studio del FMI sono riportate le soluzioni per riequilibrare i conti italiani ed evitare di esporre il nostro Paese a sanzioni da parte dell’UE o a nuove manovre lacrime-e-sangue: per prima cosa, rivedere gli assegni delle pensioni calcolate con il sistema retributivo.

Dunque, le “vecchie” pensioni andrebbero ricalcolate con altro metodo, o alleggerite delle tredicesime. Inoltre, sono state proposte misure di “riequilibrio” anche per le pensioni di reversibilità, dato che quelle italiane vengono considerate le più alte d’Europa (e incidono sul 2,75% del PIL). In quest’ottica, gli economisti del FMI propongono di fissare un’età minima perché il vedovo o la vedova ne beneficino, eliminando gli altri familiari.

Da quanto sopra non può non derivare il rischio povertà nonostante la pensione. Dunque una estensione dei disagi che legittima la preoccupazione per le condizioni di vita immediata e nello stesso tempo accresce le ansie per il futuro. Si diffonde sempre più, infatti, un senso di vulnerabilità sociale che investe larga parte dei lavoratori in quiescenza.

A fronte di una situazione tratteggiata a tinte così fosche, che fare per coloro che sono in pensione, magari da anni, e vedono quotidianamente in discussione il potere di acquisto delle pensioni?

Tralasciando le iniziative giudiziarie, credo che siano maturi i tempi per una mobilitazione che sfoci nella proposta di modifica dell’art. 1 della Costituzione: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, affinchè si aggiunga l’inciso “….fondata sul lavoro e sulle pensioni”.

Solo in tale modo verrebbe riconosciuta ai trattamenti pensionistici pari dignità rispetto alle retribuzioni, solo in tal modo non vi sarebbe la possibilità di subordinare gli interventi sulle pensioni a bieche ragioni di bilancio, solo così l’art. 81 della Costituzione (che impone il pareggio di bilancio) potrà essere subordinato ai principi generali della Carta costituzionale, contenuti nella prima parte del testo fondamentale della Repubblica.

Tutto ciò perché ritengo che su questa materia tutti debbano recepire il pensiero degasperiano, secondo cui politico è colui che pensa alle prossime elezioni, mentre statista è colui che pensa alle future generazioni.

Ritengo che –allorquando si affrontano temi così delicati- tutti debbano sentirsi statisti e non politici.

Avv. Antonio Nicolini


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