Perdita del lavoro in età matura: un evento traumatico
Perdita del lavoro in età matura: un evento traumatico
Nessuno pensa e si sofferma a considerare che la perdita del lavoro non comporta solo la perdita di un salario, della propria fonte di sussistenza, certamente importantissima, ma molto di più. In gioco c’è anche una parte di sé, della propria identità, della propria storia, del presente e soprattutto della progettualità futura.
In una realtà socio culturale in cui tutto viene ridotto a mera statistica e in cui prevale il fine economico, dove l’Economia diventa una struttura sovraordinata rispetto all’uomo, invece di essere considerata uno strumento per il benessere dell’uomo, ci si scorda che i lavoratori sono persone e come tali hanno diritto non solo ad un’occupazione e ad un salario, ma anche ad una qualità di vita e alla speranza nel futuro.
Se si considera il problema della perdita del lavoro dal lato umano allora ci si può soffermare sul fatto che una persona può essere rappresentata solo come l’insieme delle sue esperienze di vita, quindi della sua affettività e storia personale e che la sua identità appare costruita sull’insieme di queste rappresentazioni, sul senso del proprio essere continuo attraverso il tempo e le esperienze, distinto come entità da tante altre, e sull’integrazione dei differenti ruoli che incarna nei diversi aspetti e livelli della sua vita sociale (in famiglia, al lavoro, nella comunità, ecc.).
In questa prospettiva la perdita del lavoro non può che costituire un evento traumatico, soprattutto per quei lavoratori in età matura per i quali l’identità professionale rappresenta una parte importante di sé, intorno a cui sono stati costruiti anche quegli equilibri che riguardano il proprio ruolo familiare, la percezione della propria posizione sociale e l’immagine di sé, ma che oggi faticano a ricollocarsi sul mercato occupazionale e rischiano pertanto la povertà e l’esclusione sociale.
Da un vertice psicologico, infatti, la perdita dell’occupazione può comportare per queste persone un crollo identitario e la perdita dell’autostima, con serie conseguenze sulla loro salute psicofisica, mentre da una prospettiva sociologica rischiano, come afferma Baumann (2004), di andare ad alimentare quella schiera di invisibili che, scaricati dalla macchina del progresso, finiscono ai margini della cosiddetta società civile, senza più la certezza di potervi rientrare. In sostanza da operario, impiegato, manager (o altro) e capofamiglia rischiano di diventare disoccupati a vita, considerati scarti della società e di perdere la salute.
Dunque la lotta per il proprio posto di lavoro assume un significato ancora più importante, spesso ribadito dai lavoratori, che è quello della difesa della propria dignità di persone, attraverso l’affermazione del diritto ad avere un’occupazione dignitosa in cui potersi riconoscere ed identificare e delle prospettive per il proprio futuro, che tuttavia rischia di passare in secondo piano anche nelle negoziazioni sindacali, dove sempre più spesso si tende ad affrontare le emergenze legate al discorso economico, dimenticando il resto: le persone nella loro interezza.
Tutto ciò se si osserva bene ha delle conseguenze che si riflettono, oltre che sugli individui coinvolti e sulle loro relazioni familiari e sociali più strette, anche sull’intera comunità.
Le persone, infatti, sono parte integrante dei sistemi sociali, culturali e relazionali che caratterizzano i contesti in cui vivono. Non è quindi difficile immaginare che la loro tragedia riguarda tutti. La precarietà diffusa, per esempio, non comporta problemi solo per coloro che la vivono in prima persona, ma genera riflessi negativi sull’intera comunità allentandone i legami sociali e la coesione.
Ascoltando i racconti delle migliaia di lavoratori che in questo momento di crisi economica perdono il lavoro o sono costretti a usufruire degli ammortizzatori sociali emerge come tutto ciò costituisce una perdita per l’intera comunità.
Tuttavia quando si affrontano i gravi problemi del mondo del lavoro si tende a non considerare tutti questi aspetti nella loro complessità, prevale una tendenza a semplificare difensivamente o a mettere in atto un processo di deumanizzazione implicito, che impedisce di adottare una giusta prospettiva, quella che pone al centro di ogni evento la persona umana.
La lotta estrema è allora spesso l’unico modo per difendere il diritto alla propria dignità umana per molti lavoratori che in questo momento si trovano nelle stesse condizioni: di fronte allo smantellamento delle aziende, alla delocalizzazione o ai tagli delle risorse umane ecc. Organizzarsi in gruppo aiuta a superare il senso di isolamento e impotenza che si prova in queste situazioni e a non arrendersi all’inesorabile processo che conduce all’invisibilità e alla cancellazione dei diritti fondamentali. Lottare significa riaffermare i propri principi, i valori, se stessi, ancorandosi a dei punti di riferimento importanti.
In tal senso l’esperienza delle lavoratrici della ANSWER a Pistoia, è una testimonianza positiva che è sfociata in un esito di successo.
Per finire inviterei a riflettere su alcuni dati: in questo momento risulta che quasi il 30% dei giovani è disoccupato (dati ISTAT apparsi su La Repubblica 1/6/2010) perché con la crisi le migliaia di contratti precari non sono stati rinnovati; a fare da ammortizzatore in questo paese, dove le forme di welfare sono pressoché inesistenti, fino ad ora è stata soprattutto la rete familiare, ma ora che molti padri di questi giovani sono a loro volta in Cassa Itegrazione o in mobilità oppure disoccupati, cosa succederà di queste intere famiglie?
Inoltre quanto il ricatto implicito della perdita dell’occupazione che impregna le relazioni aziendali gioca un ruolo fondamentale nel generare stress e disagio e nella messa in atto di dinamiche psicologiche difensive che ci aiutino ad accettare condizioni di lavoro altrimenti inaccettabili?
Rosalba Gerli
Psicologa
Associazione Sinergie, gruppo multidisciplinare che affronta le problematiche legate al disagio lavorativo